Plan di Malgustà

La presenza delle streghe si colloca a Frisanco tra storia e leggenda: esistono infatti le deposizioni verbalizzate niente meno che dal cancelliere dell’inquisitore generale delle diocesi di Aquileia e Concordia che riportano con estrema perizia le descrizioni dei sabba che si tenevano ogni giovedì, nel Plan di Malgustà sul monte Raut. Qui le streghe rendevano conto al demonio delle loro malefatte: dopo aver ballato calpestando una croce, esibivano anche i corpi dei neonati che esse stesse dicevano di aver fatto morire per consunzione, (la mortalità infantile era molto elevata per malnutrizione all’epoca) e dopo aver tolto loro le costole per sostituirle con rametti di sambuco, ci giocavano addirittura a palla, per concludere il tutto con un rito cannibalesco. Il testimone dell’evento è il piccolo inorridito Mattia di Bernardone, trasportato nottetempo su un caprone volante al luogo deputato con la nonna: verrà perciò sottoposto a un lungo processo dal tribunale della Santa Inquisizione (dal 1648 al 1650), che si concluderà con la sua piena riabilitazione nella società civile.

Si narra che durante gli anni del processo l’inquisitore avesse mandato alcuni esploratori, per riportare delle descrizioni dei luoghi dove si erano svolti i fatti, e tre di questi si erano fracassati nei precipizi, un paio furono divorati dalle fiere, di altri non si seppe più nulla. Infine l’incarico fu affidato all’avianese Gervasio Sartori che pensava dei suoi predecessori che erano dei dilettanti, degli incapaci, e che solo lui era in grado di svolgere un compito così importante e delicato. Era fiero dell’incarico avuto dall’Inquisitore. Da anni ormai si trascinava il processo tanto che l’Inquisitore se lo sognava anche di notte. Appunto per tentare di dar forma ai suoi incubi, egli aveva bisogno di sapere come fossero fatti quei luoghi, per avere un’idea della grandezza e confrontare le dichiarazioni di imputati e testimoni.

Così, dopo aver assunto tutte le informazioni necessarie, Gervasio Sartori si accinse a salire il versante Nord del monte Raut. Un villico di Valina gli indicò la strada e poi volle dargli un consiglio:

Quando sarà giunto al prato con le pietre disposte a formare un grande cerchio, per carità o mio signore, non vi entrate, nel cerchio intendo, passateci a lato.

Sciocchezze!

Aveva borbottato Gervasio. Anche le streghe e i demoni erano per lui solo fantasie nate dalla mente di poveri valligiani che con queste tentavano di dimenticare la fame. E compativa pure quel gonzo dell’Inquisitore, con rispetto però, perché gli aveva promesso un generoso compenso. Ma poi, in fondo, pensava Gervasio, ognuno a questo mondo ha il suo compito: c’è chi nasce disgraziato, chi signore e chi, come lui, si fa da sé, tenendo i piedi per terra e la testa sulle spalle. Il villico gli aveva descritto il sentiero così bene che gli pareva quasi esserci già stato colà. Ecco il bivio per la malga Cavallotto sotto una fascia rocciosa che disgregandosi aveva creato un piccolo ghiaione. Poi il lungo e ripido bosco di faggi traforato da raggi di luce che proiettavano ombre tremolanti di foglie. Ecco il pascolo del Basson: lassù, sul dosso a destra, la capanna, ricovero di pastori, misero tugurio che non mosse la curiosità di Gervasio. Attraversò invece il pascolo verso occidente portandosi sotto un costone roccioso al cui piede lungamente il sentiero saliva. Il villico era stato preciso: appena, sulla destra, vi era la possibilità di salire, bisognava inerpicarsi lungo un breve valloncello chiuso in alto da una ripida soglia a foggia di sella di cavallo. Sopra questa vi era il grande prato con le pietre disposte a formare un cerchio.

Il sole di mezzodì picchiava implacabile sulle rocce nude cavandone soffi di calore tremolante. Un incantevole lenzuolo rosato di rododendri ricopriva un dosso oltre il cerchio di pietre alla cui sommità cresceva solitario un ginepro. Tutto era immoto e silente. Gervasio Sartori entrò tranquillamente nel cerchio, lo attraversò tutto, scavalcò le pietre dall’altra parte e raggiunse il ginepro. Si voltò con un sorriso di sufficienza ad osservare il cerchio di pietre. In quel mentre una nuvolaglia oscura discese improvvisa dalla china sovrastante mutando in un attimo la luce del giorno in fioco lume serotino. Dal basso fluivano veloci lembi sfrangiati di nebbia grigia che sfumava i contorni delle cose rendendole incerte e fugaci. Con un poca di apprensione e incredulità l’esploratore realizzò che la notte stava per sopraggiungere. Lo avevano avvertito giù in paese che il buio sui monti scende veloce e lui non desiderava certo rimanere intrappolato lassù, facile preda di orsi e lupi. Presa la strada del ritorno ripassò nel cerchio di pietre e quando fu nel centro di esso nuvole e nebbia si dissolsero d’incanto restituendo il caldo riverbero del pomeriggio. Si girò Gervasio Sartori a guardare il ginepro sul dosso di rododendri come a chiedere una spiegazione. Là aveva visto la notte incipiente. Qualcosa sfuggiva alla sua comprensione. Ma si tenne calmo. Si costrinse a ragionare. Non dette sfogo al turbine di pensieri che gli giravano in testa come mosche impazzite sui vetri di una finestra. Uomo abituato a ragionare cercò con calma una spiegazione soffocando in sé quel sentimento di paura che detestava.

Ristette Gervasio Sartori a lungo, immobile. Ascoltava i rumori della selva e ne spiava gli anditi ombrosi sotto gli alberi affidando ai suoi sensi la soluzione di quello strano fenomeno capitatogli. Emersero lentamente dalla sua memoria le parole del villico circa il cerchio di pietre: lentamente perché dapprima aveva tentato in tutti i modi di ricacciarle, ma col passare del tempo e non sapendo più cosa pensare dovette cedere e rifletterci. Era però dirompente il contrasto dentro di sé. Come poteva soltanto dar retta a quelle storie ridicole, proprio lui scettico più di San Tommaso. Eppure qualche cosa era accaduto e lui ne era testimone!

Una battaglia lunga, dolorosa combatté l’esploratore dentro il suo animo, stando dentro il cerchio di pietre. Voleva provare a risalire fino al ginepro per verificare se il fenomeno si ripeteva. Forse la soluzione migliore però era quella di dimenticare tutto e tornare a valle. L’indecisione lo costrinse ancora a lungo in quel luogo tanto che quando decise a muoversi aveva le gambe indolenzite. Aveva deciso di scendere e di scrollarsi di dosso quella storia. Come fu fuori dal cerchio la notte lo sorprese. Oltre gli oscuri costoni già le stelle baluginavano nel drappo nero del cielo, tremule come il sommesso strusciare dei grilli. Con grande sorpresa Gervasio si voltò a guardare il cerchio di pietre del quale ormai, causa il buio, distingueva soltanto la parte più prossima, un semicerchio di bianche rocce, quasi l’arco dentario, svelato da un sorriso maligno.

Ho pubblicato la relazione di salita al Plan di Malgustà per il pascolo del Basson (foto qui sopra) nel volume I Sentieri dei Garibaldini; recentemente un amico che ha provato a percorrere l'itinerario si è perso nelle mughete del Raut. Se non si è più che pratici, sentieri del genere sono difficili da percorrere e per aiutare l'amico e forse qualche altro ardito, relaziono qui un altro modo, più logico, per salire al Plan di Malgustà.

Dal lago di Selva si prende il sentiero per casera Valine Alta; poco sopra la sorgente Ciùccui si trova un bivio al quale si va a destra seguendo le indicazioni casera Chiavalot CAI 967. Apro qui una piccola polemica con il Parco delle Dolomiti Friulane autore della segnaletica: il 967 porta in Forcella Capra e non sfiora nemmeno la casera Chiavalot: una svista?

Con il 967 presto si raggiunge il Plan di Crous dove, appunto c'é una croce con una targhetta punzonata che ricorda che, nel 1709 qui precipitò Giuseppe di Pofabbro. Si segue il segnavia lungo la strada forestale e poi in un tratto di bosco che taglia un tornante della strada; tornati sulla forestale si abbandona il 967 e si resta sulla strada. Più avanti si ignora il vecchio attacco del 967 e si prosegue ancora sulla strada che passa alta sopra il pascolo di casera Chiavalot, il cui tetto è in pochi tratti visibile tra il fogliame del bosco. Dopo un ampio tornante che sfiora il solco della Val Bassa alla seguente curva si lascia anche la strada e si comincia a salire il Coston di Chiavalot lungo l'ideale linea di displuvio.

Quando il costone diventa più affilato la faggeta lascia il posto a bassa vegetazione che permette la vista sui monti circostanti: Dosaip, Caserine e Burlaton in foto qui sopra.

Il Frascola.

Il Randelino.

Dopo una breve discesa ad una sella si segue una traccia che si tiene a destra della cresta giungendo ad una forcella con croce detta Forca di Bonaventura dal nome inciso sulla croce: Colussi Bonaventura 1709. Dalla croce si traversa in quota verso destra su terreno privo di tracce.

In questo tratto è importante mantenere la quota o al massimo salire qualche metro per oltrepassare canali e doline; si mira alle colate di ghiaie che si vedono bene nella foto qui sopra.

Qualche decina di metri più in su della ghiaie c'è il ripiano con i ruderi della casera. Interessante è salire la cresta che si vede nella foto precedente per avere un più ampio panorama.

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