Flavio

Autore

Flavio è l'Autore del libro LA VALLE DEL RITORNO. Rifiuta la definizione "scrittore" perché dice che uno scrittore fa quel mestiere per vivere mentre lui scrive per diletto. La valle del ritorno è il suo libro nel cassetto meditato e modificato per anni.

Per me che da molto tempo frequento le valli tramontine, piene delle testimonianze di una società scomparsa, inoltrarmi ne La valle del ritorno è stato un po' come fare un'escursione tra i borghi abbandonati. E subito mi sono fatto un'idea dei luoghi del racconto, immaginandoli uguali a quelli che conosco molto bene, trovando sorprendente che le descrizioni si attagliassero perfettamente alla realtà. So che in altre zone delle Alpi (forse in tutte le Alpi) esistono le vestigia di una vita ed economia che è stata soppiantata dalla modernità (detta sviluppo e progresso). Flavio ha ambientato il suo racconto in questi luoghi della memoria, ispirato, forse, dalle sue esperienze e scoperte, una sorta di archeologia etnografica, che lo ha affascinato e coinvolto, immaginando qualcuno che, come lui e come noi, si chiedesse chi e come fosse la società che aveva prodotto tali trasformazioni del territorio. Il lettore scoprirà che quella società nella sua ansia di progresso è diventata disumana, vive sottoterra, non si riproduce più con metodi naturali: l'occupazione preminente è accumulare ricchezze, speculando e facendo le scarpe al prossimo: facilmente si può fare il paragone con i mali peggiori della nostra epoca denunciati senza mezzi termini dall'Autore.

Ecco allora che dalla fantasia di Flavio nasce una comunità che ha compiti di redenzione e di recupero dell'umanità. Non per caso questa comunità si chiama Arca, come la nave di Noè, riferimento biblico alla Steinbeck che da un sapore mitico a tutto il racconto. Si riflettono in questa idea i tentativi delle comuni hippy degli anni sessanta alle quali l'Autore non dev'essere estraneo se non altro per esserne stato contemporaneo. Allora, in pieno progresso consumistico, si predicava un ingenuo quanto profetico ritorno alla naturalità, all'amore, alla pace; valori che Arca custodisce e ha il compito di diffondere nel sottoterra asfittico e ipertecnologico.

Tutta questa epica vicenda non può che svolgersi in montagna, luogo naturale ultimo, e il protagonista è a tutti gli effetti un escursionista roso dalla curiosità di conoscere, scoprire, sapere. Qui l'Autore si supera in descrizioni d'ambiente e relazioni personali usando la delicatezza e l'incanto dell'innamorato. E se questa è la parte dove l'amante della montagna si riconosce maggiormente, il lettore non deve appagarsi, ma trovare tra i capitoli e i paragrafi il messaggio di speranza che Flavio lancia e propone, proprio a chi ha a cuore il meraviglioso mondo delle vette: egli ci chiama in causa, tutti, perché forse siamo proprio noi i rematori di quest'Arca, fatta di valli e guglie, ultimo baluardo contro l'insipienza della società dei consumi.

Flavio Favero LA VALLE DEL RITORNO Luca Visentini Editore € 12.00

 

Ricevo e pubblico volentieri un racconto di Flavio:

Confidenze d'Autunno

Far parlare la gente è una cosa che mi riesce piuttosto facile, che anzi quasi sempre ottengo senza volere. Non mi rendo ben conto di quali atteggiamenti io assuma o quali strategie inconsciamente applichi per guadagnare la familiarità delle persone, fatto sta che con me molti si confessano sommergendomi di confidenze personali. Sono cose di cui in genere non m'importa nulla e che sto a sentire per semplice cortesia. Con qualche eccezione però, come ad esempio nel caso di una vicenda che ho ascoltato con particolare interesse e che sto per riferire.

In un'occasione che sarebbe superfluo dettagliare, ebbi modo di conoscere una signora già abbastanza avanti negli anni però ancora piacente, una professoressa, si sarebbe detto, educata e colta, dai modi gentili. Mi ritrovai così in un piovoso pomeriggio di novembre a casa sua a bere un tè, e il pretesto di quel suo invito era stato il poter parlare un po' di montagna, nostra comune passione che ci eravamo vicendevolmente svelati conversando del più e del meno.

E fu allora, in quel pomeriggio e davanti a quelle tazze calde, che la signora volle farmi partecipe di certe sue confidenze segrete:

«Sa, quand'ero più fresca e più in gamba di quanto sia ora, mi piaceva molto fare quello che lei, fortunato, fa ancora oggi. Ai miei tempi non era tanto frequente che una donna giovane e bella com'ero io andasse in giro per i monti senza compagnia (e non lo dico per vantarmi ma solo per inquadrare meglio la situazione).

Avrò avuto trent'anni o poco meno quando un giorno persi tempo lungo il sentiero di ritorno dopo una giornata passata a vagare per crinali sconosciuti senza incontrare alcuno. Era già autunno inoltrato come adesso, le ore di luce erano decisamente poche e io non avevo considerato bene questo aspetto, così quel pomeriggio ero ancora ben distante da centri abitati e strade carrozzabili quando il buio mi colse. Fortuna volle però che di lì a breve io mi imbattessi in una bella baita ben ristrutturata e agibile. L'interno era tutto foderato in legno, una stanza unica con tavolo e panche presso un angolo e letti a castello nell'angolo opposto. Un grande caminetto campeggiava lungo una parete, e abbondante riserva di legna vi era accatastata vicino.

E questa fu davvero una fortuna, poiché la sera si presentava rigida, e bivaccare al freddo si sarebbe rivelato troppo disagevole anche per una zingara vagabonda qual ero io».

S'interruppe un momento per sorseggiare il suo tè.

«Lei mi sorprende davvero, signora» intervenni. «Non avrei mai sospettato in lei uno spirito d'avventura tanto spiccato da indurla a girare sola per posti impervi e sconosciuti. Naturalmente è una cosa che a me piace moltissimo fare, che ho sempre fatto e che faccio tutt'ora. Ma le devo confessare che il mio eterno sogno, peraltro ad oggi praticamente inesaudito, è ancora quello di riuscire a incontrare tra i monti una ragazza proprio com'era lei. Certo non sono più giovane nemmeno io come può ben constatare, ma cosa vuole... purtroppo, diversamente dal mio corpo, la mente e l'anima si sono sempre rifiutate di invecchiare e i miei desideri sono rimasti quelli di un tempo. Sfortunatamente però ci sono sempre in giro troppi specchi pronti a rinfacciarmi la cruda realtà...» conclusi fingendo rassegnazione. Lei sorrise e aggiunse misteriosa:

«Vedrà che stavolta succede...» e sorseggiò di nuovo, lasciando poi che un lungo silenzio andasse a riempire i vuoti sospesi tra i nostri brandelli di ragionamento. Poi riprese:

«Accesi così il fuoco (previdentemente portavo sempre nello zaino fiammiferi e carta di giornale), stesi a terra davanti al camino qualche coperta e mi ci sedetti sopra a gambe incrociate come un capo indiano. Intanto fuori era sorta la luna, la vedevo traversare fulgida il riquadro della finestra. Soltanto un vetro sottile era lì a difendere quel mio nido caldo dal respiro pallido della cupa volta celeste che là fuori congelava l'alpeggio solitario, ma non volli accostare le spesse imposte di legno perché pur godendo del calore offerto da quel mio improvvisato e fortunato ricovero volevo tuttavia rimanere immersa nell'incanto lunare di quella luminosa notte, nel cuore della montagna che amavo.

Fu allora che avvertii un colpo accanto alla porta, come se qualcuno fuori avesse scaricato giù un sacco contro i tronchi della parete».

Si interruppe guardandomi ammiccante. Vuoi vedere, pensai, che adesso entra in scena il "lui" della sua vita? Ma ci avevo azzeccato solo in parte. Continuò:

«Scattai in piedi e andai alla porta aprendo uno spiraglio. Alla luce della luna vidi una figura che armeggiava curva sullo zaino, come per sistemarlo; udendo la porta aprirsi l'uomo guardò dalla mia parte senza però distinguermi bene a causa della poca luce. Lo vidi quindi estrarre una lampada a gas, accenderla e appenderla fuori ad un gancio. –Venga dentro– gli dissi –non vorrà mica starsene fuori al freddo no? ho acceso anche il camino–. Lui borbottò qualcosa che mi parve un ringraziamento ed entrò portando con sé la lampada accesa che sistemò sul tavolo, e lo zaino che svuotò estraendone del cibo e del vino.

Purtroppo nemmeno stavolta si trattava dell'uomo della mia vita, pensai. Avrà avuto un'età sui cinquanta, un tizio un po' appassito dal sole e dal vento, capelli grigi, aria vissuta. Insomma...» terminò la descrizione strizzando l'occhio e guardandomi di sottecchi «...insomma uno un po' come è lei adesso». Si fermò un momento per considerare la mia reazione alle sue parole.

Mi sentii in dovere di dire qualcosa:

«Ecco vede? mai che succeda a me una cosa del genere...»

Lei sorrise di nuovo. Cercai di immaginarmela come doveva essere stata una quarantina d'anni prima. Non molto alta ma sicuramente ben fatta, pensai. Ancora adesso il viso era ben tornito sotto i biondi capelli raccolti, e la sua figura snella era giustamente sottolineata dai jeans di tela aderenti. Il busto, poi, fasciato dalla nera maglia elasticizzata a collo alto e a coste sottili proponeva indelebili le linee di curvature aggraziate che nemmeno una senilità avanzata sarebbe mai riuscita a confondere del tutto. Riprese a raccontare:

«Guardandolo poi meglio capii che non si trattava però di un tipo banale. Aveva un'aria zingara che decisamente m'intrigava, capelli un po' lunghi, barba di qualche giorno, viso affilato; un figlio dei fiori ante litteram insomma (a quel tempo la moda degli hippies non era ancora dilagata). Si capiva subito che era un uomo dalla lunga esperienza e dalla forte personalità, il suo sguardo era intelligente, limpido, diretto, la sua voce morbida e suadente, le sue parole ironiche e affabili, i suoi modi cortesi. Non posso negare che, tempo qualche minuto, ne fui affascinata, e da quel momento la serata cominciò a prendere una piega inattesa.

Allora mi sentivo molto sola, la mia vita era riempita soltanto da impegni di lavoro e io mi trovavo appena uscita, e anche malamente, da una relazione sentimentale sfortunata che mi aveva lasciato in bocca tanta amarezza. Solo la montagna mi consolava. Cominciammo così a confidarci del perché e del percome eravamo lì, e non solo. Lui era un musicista, mi disse, e io subito me lo immaginai cavalcare nella sconfinata pianura ungherese col suo violino a tracolla.

Ebbi anche per un momento il sospetto che potesse trattarsi di un furbone, un impostore, ma quando gli guardai le mani dalle dita lunghe, sottili e nervose capii che aveva detto la verità. Parlammo così di musica (un poco me ne intendevo), discutemmo di Monteverdi e Vivaldi, di Wagner e Debussy, confrontammo Mascagni con Mahler, opponemmo i concerti di Rachmaninoff ai quadri di Mussorgsky, e lui cominciò a descrivere certi pezzi che anch'io sommariamente conoscevo rendendoli efficacemente con le sole parole e riuscendo ad evocarne interamente l'anima.

Una cascata di note silenziose cominciò così a sciorinarsi in quell'aria che andava assumendo il calore del fuoco e il colore dei ricordi più belli, che presto iniziammo a confidarci l'un l'altro al suono di quella musica immaginaria che dilagava in crescendo attraverso la penombra baluginante di fiamma. Eh sì, il fuoco è un inarrivabile, ipnotico esecutore; e anche uno sfrontato ruffiano, quando ci si mette d'impegno».

Sorseggiò ancora un po' di tè. Si capiva che i pensieri e i ricordi la stavano pian piano trasportando in un'altra dimensione, quella della memoria. Ormai non parlava più per me, ma solo per sé stessa; non ebbi dunque il coraggio di interrompere quel suo raccontare con inopportune domande. Lei riprese:

«Ci trovammo infine seduti vicini sulle coperte davanti al camino. Dopo le infinite parole del primo momento un silenzio complice si era insinuato tra noi, le frasi s'erano ridotte a parole, le parole a monosillabi, a sussurri, a sorrisi. Credo che iniziai ad abbracciare le mie ginocchia posandoci sopra il mento. Rivolgevo il mio viso alla fiamma, ma la schiena era rimasta in faccia alle stelle come il lato oscuro della luna, e un po' doveva tremare poiché lui vi posò sopra la sua calda mano applicandovi il tocco leggero del raffinato esecutore. –Hai freddo?– mi chiese. –No, si sta proprio bene qui, ho solo qualche brivido di emozione– risposi, e sapevo bene che così dicendo lui non si sarebbe più ritratto; ma non potevo certo immaginare la sinfonia che le sue abili dita avrebbero di lì a poco eseguito sulle corde più segrete del mio corpo.

Iniziò dunque a scorrermi i suoi polpastrelli leggeri tra le scapole ossute, sgranando tra pollice e indice le mie vertebre a una a una come grani d'un rosario fatto di preghiere di carne.

Prese poi a sciogliermi i muscoli del collo e io ricordo che rovesciai indietro la testa abbandonandomi completamente al suo tocco, tanto ormai non ero più in grado di connettere né di oppormi in alcun modo al fluire degli eventi. Sentii allora il suo abbraccio caldo su di me, la sua fronte posava alla mia nuca e le sue braccia mi circondavano, mi plasmava il busto con le sue mani come fa uno scultore con la statua d'argilla che va foggiando. Mi lasciai così attirare indietro contro di lui, tra le sue gambe, il mio bacino premeva contro il suo sesso, credo, e le sue mani nervose ma caute indugiavano ormai attorno al mio seno e sul mio ventre in un "pianissimo" destinato però a crescere».

La signora mi lanciò uno sguardo diretto, scevro di qualsiasi impaccio, come se ritenesse quei discorsi assolutamente normali e naturali. Io, per contro, a quelle sue schiette parole ero rimasto un po' stupito. In fondo tra noi non c'era ancora quella confidenza che avrebbe reso naturale il livello di dettaglio cui il racconto era pervenuto. Ciò nondimeno ostentai tutta la naturalezza che mi fu possibile esibire. Lei continuò:

«Chiusi gli occhi e mi lasciai andare completamente. Non potevamo né volevamo trovare parole a corollario di quanto stavamo facendo, poiché ogni voce si sarebbe scoperta inadeguata; anzi, l'integrità di quell'incantesimo sarebbe stata compatibile, credo, soltanto col silenzio di ogni parola, e noi che lo sapevamo non volemmo spezzarlo. Succedono cose in certi luoghi abbandonati dell'universo, che credo non potrebbero accadere altrove. Quando ci troviamo immersi nella realtà di tutti i giorni, infatti, non risulta proprio possibile evocare la stessa magia che suscita la solitudine dei monti e che invece i quartieri di città soffocano sempre sul nascere.

Ecco, ciò che stava accadendo tra me e quello sconosciuto con il quale avevo instaurato in brevissimo tempo tanta intesa, sarebbe risultato povera cosa, ridicola e penosa se fosse avvenuta tra le scrivanie di un ufficio: un rapporto squallido magari consumato in fretta come un sandwich in un improbabile fuori orario, esposto al pericolo di incursione da parte della vigilanza o del personale delle pulizie. E invece in quell'isolamento perfetto che solo una montagna complice sa organizzare, ci trovammo in una bolla di esistenza del tutto separata rispetto alla comune realtà di tutti i giorni. Una cosa che solo lassù può succedere, non crede?»

Assentii muto e pensieroso. Anch'io avevo a volte sperimentato sentimenti del genere, ma adesso non era il mio momento di parlare, ero tenuto a mantenermi nel ruolo del semplice uditore. Proseguì:

«Ripensando a quell'esperienza mi sono poi chiesta cosa mai avessi visto in quell'uomo per abdicare in un attimo a ogni mia difesa e darmi completamente a lui. E una risposta l'ho anche trovata alla fine: mi ricordava inconsciamente un mio lontano cugino, più grande di me d'una ventina d'anni, del quale da bambina ero segretamente innamorata. Si chiamava Davide. Veniva da noi prevalentemente a festeggiare il Natale, tanto che alla sua immagine associo ancora quell'aria di festa di allora, l'albero illuminato, le campane a distesa, i doni poveri ma tanto attesi e il caminetto acceso. E quando arrivava correvo ad abbracciare le sue gambe muscolose e dure come colonne di marmo, e lo stringevo forte a me premendogli il mio corpo minuto contro l'inguine. Sapevo come erano fatti gli uomini, avevo ben visto il mio Davide scolpito in marmo a Firenze in Piazza della Signoria, sapevo bene di quella lumachina sfrontata che abitava al vertice tra le sue cosce muscolose, e per quella oh se lo invidiavo! Avessi avuto io una cosa del genere al posto di quella fessurina insulsa che mi ritrovavo, ci avrei giocato tanto volentieri. Non sapevo nulla del sesso io. A quei tempi le bimbe specialmente erano lasciate del tutto all'oscuro. Non potevo ancora sapere dell'ostrica preziosa e calda che nel mio corpo si sarebbe dischiusa un giorno appena sotto la soglia di quelle labbra che al momento apparivano avare e strette, una cosa che avrei scoperto solo molto più avanti con la pubertà e l'esperienza.

Mi sbottonò dunque la camicetta e mi slacciò il reggiseno esponendo così alla luce rossa della fiamma i miei seni a quel punto già eretti e protesi, che assunsero così l'aspetto di frutti rotondi e maturi dall'impertinente picciolo che lui cominciò a solleticare piano. Poi scese con le mani a liberarmi il bacino sfilandomi gli ultimi indumenti. Mi sentivo perfettamente a mio agio, tanto che mi misi in ginocchio e mi voltai rivolgendomi dalla sua parte. Il calore del fuoco mi sferzò la schiena e i glutei vibrandovi sopra staffilate di energia. La sua mano subito si protese verso il mio ventre in ombra e con dita vibranti dischiuse lievemente il mio scrigno segreto modulandovi un'elaborata sequenza d'arpeggi, come uno svelto pizzicato sulle corde d'una viola d'amore. Istintivamente allargai un poco le ginocchia, poggiai le mani indietro sulla coperta e rovesciai la testa inarcando la schiena. L'eccitazione più furibonda si impossessò di ogni mia fibra, tanto che non oso nemmeno ricordare le parole e i gemiti che uscirono dalle mie labbra».

Si interruppe per terminare il suo tè.

Io credo proprio di essere leggermente arrossito all'udire quei dettagli esposti con sì viva partecipazione. Non che io sia un puritano bacchettone, intendiamoci, ma un racconto così audace non l'avevo ancora inteso uscire dalle labbra di una donna, tanto meno da quelle di una signora perbene che quanto ad età avrebbe anche potuto essere mia madre.

Lei dovette un po' accorgersene, tanto che mi guardò e rise apertamente:

«Lo sa che lei ha una faccia impagabile? La sto forse scandalizzando?»

«Ma si figuri, sono uomo di mondo io!» scherzai cercando di assumere contegno.

«Spero che non pensi che io con questo mio racconto la voglia sedurre... sa, non sarebbe leale da parte mia se l'avessi attirata qui solo per questo senza farglielo capire prima» scherzò lei a sua volta.

Esitai un momento prima di rispondere. La signora esibiva indubbiamente un fascino inaspettato. Mi sentivo un po' nella situazione narrata dal Poeta nel quinto Canto del suo Inferno: anche noi due, in fondo, stavamo rievocando un racconto d'amore come gli sfortunati protagonisti del celebre simultaneo e violento trapasso ivi narrato, ma la fine di questa nostra storia sarebbe stata molto meno drammatica, o almeno così mi auguravo. Sorrisi schermendomi:

«Non posso immaginare le sue intenzioni, ma mi fido di lei... e poi mica siamo in montagna qui, no? Sente questo rumore?» dissi indicando giù, oltre la finestra, la strada che mormorava di traffico e strideva di freni d'auto e ferraglia di tram «le sembra questo un posto dove si possa sedurre qualcuno?»

«No, non mi pare proprio il posto adatto...» ammise. «Ma lei avrà già capito» continuò «perché parlo di tutto questo. Lo racconto a lei ma in realtà lo dico a me stessa. Ci sono cose di noi, della nostra vita, che non siamo mai riusciti a spiegarci del tutto, e a volte solo raccontandone riusciamo a esaminarle attraverso una prospettiva nuova che ci aiuti a comprenderle».

«Insomma» proseguì «eravamo tutt'e due inginocchiati su quelle coperte, quando lui improvvisamente si alzò in piedi per sfilarsi i calzoni, scoprendosi così completamente dalla cintola in giù. Accennò a rimettersi in ginocchio davanti a me, ma io lo bloccai abbracciando forte le sue gambe muscolose e avvinghiandomi alla sua carne. Le mie unghie scalfivano la compattezza dei suoi glutei mentre il suo scettro regale eretto e pulsante, nodoso e duro come legno di faggio mi sfiorava la testa insinuandosi tra i miei capelli. Oh Davide, avessi potuto io abbracciarti così ai nostri tempi! Alzai allora lo sguardo fino a incrociare quello di lui puntato su di me, e senza staccare i miei occhi dai suoi, posi le mie labbra all'estremo di quel flauto meraviglioso iniziando ad amarlo, a coccolarlo dolcemente con le labbra e la lingua, a mordicchiarlo piano, ad applicarvi virtuosismi d'esecuzione mai sperimentati prima, traendone melodie celestiali.

Quelle sue gambe erano chiare e lisce più di quanto mi fossi aspettata; l'analogia col michelangiolesco gigante mi stordì sovrapponendosi nella mia mente alla presente realtà e drogando i miei sensi. Sentivo quelle gambe marmoree tremare nella stretta delle mie mani, sotto l'artiglio delle mie unghie che rigandole in su e in giù non cessavano di trarre guizzi d'energia da quei muscoli così definiti e sodi. A un certo punto le sue ginocchia si fletterono piano e ci abbassammo insieme lentamente fino a terra mentre io non desistevo dal vezzeggiare con le labbra il magico strumento. Facendo poi perno su di esso e ruotando completamente, lui si rivolse infine alla mia ostrica preziosa aprendone con dita esperte i drappeggi e raggiungendo così la piccola perla ivi incastonata. Sentivo la sua barba ispida punzecchiare piacevolmente nell'intorno di quel giardino ancestrale origine del mondo dove la lingua dell'atavico serpente saettava lesta inebriandomi sino all'insostenibile. Continuammo così in quella vicendevole spasmodica attività applicandovi un crescendo entusiasmante, senza preoccuparci di assumere posture più consone ai canoni classici dell'ortodossia, finché giunti al culmine esplodemmo in una simultanea deflagrazione che temporaneamente ci placò. Per tutto il resto che poi sarebbe seguito potevamo permetterci di non avere alcuna fretta, in fondo avevamo ancora tutta la notte davanti, e quindi dopo esserci sommariamente drappeggiati addosso due coperte ci trasferimmo sui letti ridendo, mangiando e stappando il rosso nettare di Bacco.

A quel punto ci rendemmo conto che non ci eravamo ancora romanticamente baciati nel modo più classico e usuale. Era indubbiamente una lacuna da colmare subito, e allora chiusi gli occhi e attesi fino a quando un sentore caldo e profumato, vagamente odoroso di vino si accostò alle mie labbra che dischiusi. Lui iniziò a mordicchiarmele piano e avvertii la punta della sua lingua calda percorrerne tutto il contorno. Allungai anch'io la punta della mia lingua arcuandola verso l'alto e lui me la morse piano per poi risucchiarla tutta nella sua bocca. Ci stringemmo quindi in un abbraccio eccitato mentre ci poppavamo avidamente le labbra e la lingua, e avvertimmo l'impeto di poco prima riaccendersi in noi. È incredibile come ciò che di solito suggella l'inizio di un approccio venisse da noi intrapreso solo dopo aver consumato una buona metà di ciò che di solito segue. Ma così vanno queste cose, iniziano quasi per caso in un certo modo che non puoi prevedere, e poi non si sa dove possano andare a parare...

Ma io devo averla scioccata, e forse anche un po' annoiata, con queste mie memorie licenziose; adesso penserà che io sia una vecchia ninfomane e si terrà alla larga da me, suppongo...»

«È davvero tardi signora» dissi eludendo la domanda, guardando l'orologio e facendo l'atto di alzarmi. Ma lei mi fermò posandomi lievemente una mano sul braccio:

«Non è arrabbiato con me vero?» mi chiese dolce, spalancando due occhi grandi e liquidi.

«Potrei mai esserlo? Lei oggi mi ha insegnato molto sulle donne».

«Via! non mi prenda in giro!»

«Lo dico sul serio. E le dico anche... che lei è davvero una donna meravigliosa» conclusi esprimendole così ammirazione e anche gratitudine per avermi reso partecipe di tanto intima parte del suo passato. Alzatomi dunque in piedi continuai: «E voglio infine confidarle che anche se mi inviterà di nuovo con l'intenzione di sedurmi, non mi sottrarrò», ma questo lo aggiunsi solo per esagerare un po' nella cortesia, s'intende.

«Lo capirà allora dal fatto che non la inviterò più qui, bensì in montagna; però non in una fredda baita di fortuna, ma nel mio chalet ben riscaldato e con bagno caldo e doccia. Data la mia età non mi posso permettere di sfidare i miei reumatismi in una stamberga gelata sopra pulciose coperte» concluse ridendo e accompagnandomi verso la porta. Aggiunse poi:

«Vada là, che lei è un bel marpione, l'ho capita sa? So bene che voi uomini concepite il rapporto con persone di età molto diversa dalla vostra solo se si svolge in un unico modo, cioè con donne molto più giovani di voi, mai più vecchie! Senza eccezione alcuna voi uomini pensate che dopo i cinquant'anni le donne siano tutte da buttare, lo confessi una buona volta!»

Sorrisi evitando di rispondere. Ero già alla porta. L'aprii, poi mi voltai, presi la sua mano destra tra le mie, la guardai negli occhi e mormorai:

«Lei sarà sempre una gran donna, signora; a qualunque età», e salutando con la mano scesi a saltoni giù per le scale.